La mattina del 26 marzo

La mattina del 26 marzo 2… resterà nei miei pensieri. Ricordo una macchina e Battista che mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Poi il vuoto più assoluto.
Mi sono svegliato trenta giorni dopo in un letto d’ospedale; cos’è accaduto nei trenta giorni che ho passato in rianimazione?
Una cosa è certa: io non c’ero, ero solamente un corpo tenuto in vita artificialmente. Il mio corpo respirava, mangiava ed io non ero cosciente. Cosciente: lo stato in cui si trova chi non è “addormentato”.
Quante volte ho ripetuto questa frase per dare un senso a quei giorni . L’unica cosa che mi viene in mente è un corpo immobile e una schiera di dottori attorno.
Poi un giorno ho aperto gli occhi e ho iniziato a sentire i rumori che mi invadevano: ero vivo.
Ritorno spesso, con il pensiero a quei momenti, e ho un’unica visione: una carta geografica di non so quale paese, una parete bianca e una voce che mi chiede qualcosa. Ripensando a quei momenti non riesco a farmene una ragione.
Riesco solamente a pensare a come recuperare il tempo che ho perso: è un’idea fissa la mia, quella di riprendere da dove avevo lasciato.
Ma non ci riuscivo! La pura di torna re indietro, di ricadere in quella sorta di limbo che è stata la fase acuta della malattia, mi bloccava.
Come scordare il giorno della partenza dall’ospedale civile di Mestre. L’ambulanza attraversò la città e finì la sua cosa a Piazzale Roma; ero stordito, dai colori e dal via vai della gente. Con ma c’era mia moglie: come posso scordare la sua voglia di riscatto che traspariva dai suoi modi di fare. Mai avrei immaginato che Stefania si sarebbe comportata così.
Ho ritrovato la donna che conobbi all’inizio della nostra storia: matura, una donna che sa valorizzare le cose, ma soprattutto disponibile.
Volevo che fosse presente a tutti gli appuntamenti e volevo che le decisioni scaturissero da un pensiero comune: il suo e il mio. Stefania, l’unico motivo di riscatto per me.
Giunsi all’altro ospedale e mi portarono nella mia stanza: ricordo che mi sembrò enorme. Quando entrai ero in barella, rimasi colpito perché c’erano altri due ammalati che erano in uno stato d’incoscienza. Dopo alcune ore mi spostarono e mi ritrovai in una stanza con altri cinque ammalati.
Stefania era andata a casa e io soffrivo per la sua mancanza. Furono giorni terribili: ogni minuto del mio tempo ero con il pensiero fisso di andare a casa. Sono arrivato a rifiutare le cure, mi rifugiai in una sorta di silenzio come se gli altri fossero la causa del ricovero. Mi ammalai di un’infezione urinaria fastidiosa che mi obbligò a letto per una decina di giorni.
Lo scenario era completo: ammalato con la febbre, incapace di muovermi perché colpito da una sorta di paralisi al lato destro del corpo. Tutto era contro di me: la malattia, a questo punto, diventò il mio unico rifugio.
Me ne stavo a letto anche se potevo alzarmi: una sorta di gioco al massacro era nato ed io mi avviavo verso l’autodistruzione.
Furono giorni terribili, la mia voglia di guarire si affievolì. Mettevo in discussione tutto e tutti: la paranoia mi prese e si burlava di me.
Una mattina mi svegliai ed ero diverso: avevo voglia di fare, di confrontarmi con il mondo. Avevo già vissuto lo stato in cui mi trovavo: i momenti svolta, quando si decide che è ora di cambiare, quando un fatto, un perché mettono in discussione le certezze.
Le cose le vedevo com’erano e fu allora che mi resi conto della mia impotenza di fronte a nuovi avvenimenti. Naturalmente nulla è stato facile, anzi, si può dire che cominciava allora la mia nuova esistenza.
Una battaglia era stata combattuta, senza esclusioni di colpi: ha vinto la voglia di vivere, il desiderio di mettermi in discussione per l’ennesima volta.
Cominciai a vedere con altri occhi la fisioterapista che, con pazienza, svolgeva il suo lavoro. Quante volte era venuta, all’ora prefissata, a vedere perché ero a letto e quante volte sono andato da lei con un unico scopo: suscitare compassione.
Ma quella mattina mi sentivo un altro, anche se avevo paura che il desiderio che avevo, in realtà, fosse un espediente per nascondere qualche nuova ansia.
L’ora di fisioterapia passò in un lampo tanto che rimasi deluso: volevo ancora fare flessioni, volevo ancora fare ginnastica.
Il giorno seguente ebbi un incontro con la logopedista: il mio linguaggio aveva subito delle “alterazioni”. Molto spesso non riuscivo a terminare la frase perché non trovavo più le parole.
Forse la paura di non essere in grado di comunicare, la paura di essere escluso, mi diede la carica per ricercare nei logopedisti e nei fisioterapisti un’ancora di salvezza.
Furono giorni indimenticabili, giorni nei quali tutto me stesso era proteso verso la guarigione.
Ricordo che, molto spesso, la notte piangevo perché volevo vedere i miei, mia moglie. L’unica cosa che mi dava la forza per andare avanti era il desiderio di guarire. Mi rifugiai in questo desiderio e tutto il resto non esisteva: sapevo che ce la potavo fare.

Francesco Liberatore